Dove finisce l’Aurelia
Per noi, viaggiatori un po’ donchisciotteschi, che non possiamo anelare a passi e alture alpini (sempre due ronzini di potenza abbiamo), l’Aurelia è stata per anni l’unico modo possibile per raggiungere l’Estero. Un po’ di Maremma, i monti della Liguria, Genova, Sanremo e via, verso il paese dei Gendarmi, del formaggio etc etc.
Qualche tempo fa ci siamo accorti che subito dopo Civitavecchia qualche sinistro figuro aveva piantato dei filari di plastica rossa, di quelli che servono a delimitare i cantieri. Il rosso è un colore importante a cui siamo sicuramente legati, ma a volte può significare anche “pericolo”, “aiuto”. O “merda!”. I succitati figuri, scoprimmo poco dopo, avevano iniziato quelle operazioni che in termini tecnici rientrano nel nome di “esproprio”, un principio sancito dalla Costituzione per le opere di “pubblica utilità”.
Eh già: era iniziata la cannibalizzazione della strada statale. Ma per farne cosa? Per quale motivo? Abbiamo fatto alcune ricerche e abbiamo scoperto che l’intero tracciato della SS1 che va da Civitavecchia a Rosignano è l’asse portante del progetto SAT. Società Autostrada Tirrenica. Il prolungamento dell’A12 fino a Livorno, un progetto vecchio (ma “vecchio” nel senso stretto del termine) di oltre 40 anni.
Si tratta dell’ennesimo capitolo della girandola delle cosiddette “grandi opere” che, in questo caso, si tinge di nero rapina. Non solo grandi movimenti di terra, cementificazioni selvagge e distruzione del paesaggio, ma la “trasformazione” di una strada pubblica – la prima strada pubblica d’Italia – in un’autostrada privata a pagamento. Un autentico orrore.
Il colpo di grazia per la nostra sensibilità romantica – che tanti problemi ci provoca, lo riconosciamo – è avvenuto qualche mese fa, quando cercavamo un distributore di benzina dove lavoravano delle persone gentili, a cui eravamo legati per quelle vicende particolari che si creano durante i viaggi: chiacchierate mangiando un panino con la cicorietta, intensi scambi di vita, ricordi, modi di dire. Un signore di roma, Massimo, e uno pakistano, Amhed. Girando e girando per ritrovarli ci siamo resi conto che quel distributore non esisteva più, al suo posto c’era una distesa di terra rivoltata e una ruspa che ci affondava dentro. Ci avevano letteralmente scippato un pezzo di noi, un ricordo, un luogo a cui eravamo legati e dove avevamo accavallettato la vespa. Magari uno dice chissenefrega. Però, di certo, questa vicenda, oltre alla condanna politica e intellettuale, ci ha colpiti dritti al cuore.
Abbiamo scoperto, parlando con il nostro amico Luca Martinelli – giornalista di Altreconomia – che qualcuno aveva iniziato ad organizzarsi per sollevare critiche e battersi contro questo mostro dal costo di oltre 2 miliardi. Il “solito” comitato civico, spesso le uniche realtà che davvero sanno analizzare certe tematiche. Sono i No Sat. Meno noti e organizzati dei No Tav, meno agguerriti dei No Dalmolin, ma sicuramente inseriti in quel percorso ideale che frappone la gente alla grande speculazione privata garantita dallo Stato.
Abbiamo così incontrato Sascia e Claudio in un bar di Venturina, a Nord di Piombino. Nel paese passava la vecchia Aurelia, quella che fu a due corsie, abbandonata nei decenni successivi a favore della “variante”, la superstrada a 4 corsie che di fatto già collega il Nord con il Sud della Maremma. Ora, a Venturina, l’Aurelia è un’isola pedonale. Con l’Autostrada privata, ci spiegano, qua dovranno necessariamente tornare le macchine. Togli un servizio pubblico tuttosommato moderno e funzionante e la gente, che certo non può pagare per spostarsi di pochi chilometri, tornerà ad invadere le piccole arterie di campagna.
Ovviamente il problema principale non è questo. L’Aurelia, dimenticata prima e cannibalizzata poi, è un simbolo ben preciso di una mancanza di sensibilità storica e culturale, che è poi la base su cui mettere in piedi dei meccanismi di svendita della terra per trarne profitto immediato (pochi spicci, a dire il vero). Una strada che collega Roma con la Tuscia e la Maremma, passando per luoghi imbevuti di bellezze e picchi antropologici dovrebbe diventare un vero e proprio simbolo, un volano, ciò su cui investire con intelligenza e consapevolezza, cioè valorizzandolo, raccontandolo e soprattutto proteggendolo. Le possibilità per ripensare un territorio in via di pesante deindustrializzazione sono immense. Sicuramente si dovrebbe partire dalla tutela del paesaggio e dalla valorizzazione dell’offerta – che è offerta culturale e gastronomica – facendo un brusco passo indietro rispetto agli incubi del ‘900. E invece scompare dalla memoria, dalla carta geografica, dal parlato quotidiano delle persone. Il capitalismo selvaggio cancella con i suoi nomi che finiscono in “ing” quello che neanche i barbari avevano potuto rimuovere: la saldatura tra uomo e terra operata dalla rete viaria più antica e rinomata di sempre. Si parte da questo, tutto sommato, per trasformare un luogo in un “non-luogo”. Si leva identità, si separa la gente dalla terra e poi la gente tra loro. Così tutti soli e in posti che potrebbero essere ovunque, i popoli diventano piano piano delle pedine in mano a pochi scellerati che hanno come unico credo quello del profitto.
- tracciato tirrenico
- Lazio Toscana
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