Il Grande Cilento
Il Cilento sta come un figlio dell’Appennino che si é perso sulla costa e che non riesce a ritrovare la via di casa, mentre allo stesso tempo e a sua volta nessuno lo trova. Bello e imponente e misterioso, chiude la risalita verso Napoli e pone l’antico limite per la ridiscesa verso Sud, tagliando in due parti la costa tirrenica e incastonando quaggiù una ragnatela di paesi remoti e sinceri, pressochè montani, nascosti al mare prima e ai saraceni poi. Un luogo meraviglioso che quasi si ha paura a raccontare, per il timore che venga scoperto più del dovuto.
Ritroviamo Antonio e Dario nella piazza di Sicili, dove la cooperativa Terra di Resilienza ha la nuova sede, in una vecchia scuola dismessa a seguito del crollo demografico. Così li avevamo conosciuti a Firenze, a Maggio, così li rivediamo. Stavolta, peró, sono a casa loro e questo gli permette di dispiegare la loro storia e il loro racconto con tutta la forza che possiede. Ci sediamo attorno al tavolo dove ci ha raggiunto anche Claudia e da quel momento inizia un racconto lungo ore, in tante lingue diverse, figlio di libri e canzoni, lingue e riflessioni. Genova, i briganti, il parco, i semi antichi custoditi nella biblioteca del grano, gli asini usati per esplorare il territorio assieme ai visitatori e ancora l’emigrazione durissima in Germania, i fiumi che si inabissano e risorgono, il turismo predatorio sulla costa e quello giovane e virtuoso tra i monti, l’olio, gli incontri sulla permacoltura e gli orti sinergici, pensare in dialetto, parlare in italiano, le fiat panda e le Ape Car al posto dei ciucci, i funghi nati dopo la pioggia, la tomba di Pisacane, venuto quaggiù convinto di sollevare le genti contro il Borbone e massacrato dalle guardie dei padroni, le case spagnole, i lineamenti svevi e quelli arabi, presenti allo stesso modo nello sguardo della gente. Tutta gente bella, va detto, con un sorriso e una predisposizione verso l’altro che affonda direttamente in una cultura arcaica, solo parzialmente intaccata dalla piaga del consumo e dalla perdita di coscienza.
Questa volta stabiliamo con i nostri ospiti un rapporto particolare, che ancora non avevamo incontrato. In quasi quaranta giorni di viaggio abbiamo conosciuto tante persone, tante realtà, costruendo empatie diverse, o a volte non costruendone affatto. Ora che Antonio, Dario e Claudia ci sono davanti, però, la sensazione che proviamo è quella di trovarci a casa, di camminare sulla stessa strada, come affluenti dello stesso fiume, seppur perfetti sconosciuti. Chi è questa gente che parla un campano elegante, che racconta di terra e filosofia, di grano e di storia, di appennino e di mare? Conoscono il dialetto e lo usano per spiegare il mondo allo stesso modo con cui parlano della montagna o della falla nel sistema economico, della riformulazione del senso che sta scaturendo, nel locale, come reazione, come rivolta, come risposta. Anni di discussioni, di incontri, anni lontani dai paesi in cui erano cresciuti, fino alla decisione di ritornare, di “riportare tutto a casa”, come diceva Dylan, e di seminare quanto avevano in tasca. Fino all’utilizzo di una parola che viene dalla fisica e che indica la capacità di un materiale di sopportare un urto e di tornare nello stato iniziale: la resilienza. Hanno chiamato così la cooperativa sociale che hanno fondato “Terra di resilienza”. Il Cilento.
Con loro ritroviamo parecchie pratiche a cui abbiamo finito per stabilire una familiarità. L’orto, innanzi tutto, dove ci porta Dario, costruito nella variante sinergica, con la sua paglia e la sua rotazione di colture, con una forma a spirale. Hanno addirittura tenuto un seminario con uno dei luminari di questa tecnica che “arricchisce l’orto man mano che lo si coltiva” (ossia l’esatto contrario di quello che è sempre accaduto), arrivato quassù direttamente dal Sudamerica. Sta proprio vicino alla piccola stalla dove abita l’asina con cui si fanno i viaggi di turismo responsabile tra i vari paesi; la “ciucciopolitana”, l’hanno chiamata. Geniale. L’orto serve solo in parte per mangiare, perché svolge soprattutto un altro importante ruolo: la conservazione delle varietà vegetali ormai in via di abbandono, salvandone i semi. Le hanno recuperate dai vecchi contadini e catalogate, per non perdere la biodiversità presente nel ciclo alimentare autoctono. Con il grano hanno addirittura creato una “banca del grano”, selezionando svariate varietà e salvaguardandone il futuro. E ancora, l’agricoltura sociale, con il recupero dei tossicodipendenti – che pure sono presenti in un luogo così bello – con il loro impiego nelle attività della campagna, e il “palio del grano”, che rappresenta uno dei momenti di maggiore apertura e socialità della zona, tutto incentrato sulla coltura e sulla cultura dei cereali.
Non si tratta semplicemente di una tutela di ciò che è stato, non degenera in una rievocazione o peggio di un tentativo di riportare indietro le lancette della storia, gettandosi nella frustrazione di non poter rivivere un tempo remoto, una sorta di infanzia perduta; quello che qui si sta cercando di perseguire è una sintesi tra conoscenza e innovazione, andando però a stabilire con cura quale sia la conoscenza e quale sia l’innovazione. La conoscenza è data dalla terra, dalle facce e dai modi dei paesani, dalla loro capacità di stabilire relazione, di creare e vivere in un’economia informale (“vernacolare” la definirebbe Latouche) mai intaccata davvero dall’inidividualismo predatorio che ci ha voluto consumatori. L’innovazione è rappresentata dalla capacità di trasformare queste conoscenze in un modello economico e sociale che sappia superare la frattura storica che abbiamo innanzi. A questo serve riattivare il vecchio mulino ad acqua e macinare là un po’ di grano. A questo serve sconfessare il turismo “dei napoletani” che vanno sulla costa per un paio di settimane all’anno senza stabilire nessun legame con il popolo e con la terra, chiusi nella dimensione della “villeggiatura”. Meglio l’albergo diffuso o, ancora meglio, l’ospitalità diffusa, nelle case degli abitanti. Meglio spiegare il nome di un arco con il dialetto, meglio andare in giro assieme a loro e salutare tutti, capire i dialoghi, portare con sé un po’ di quella capacità genuina, sana, onesta di essere persone, di ricercare la dignità, di recuperare una vita che sia realmente compatibile con il ciclo biologico della natura, con le stagioni, con i culti pressoché pagani che alle stagioni sono legati e che sanciscono il legame inscindibile tra un popolo e la sua natura, tra un popolo e la Natura.
- tracciato della magna grecia
- Campania
- 38° giorno di viaggio
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