Un Cervo che vola

Quittengo. 8 Settembre 2013.

Mentre preparavamo il perimetro diverse persone sollevarono la stessa obiezione, del tipo: “cosa andate a fare sulla costa? Le cose interessanti stanno dentro, in montagna. La costa, ormai, è distrutta”. In attesa e nella speranza di poter sonoramente smentire i nostri amici dobbiamo però registrare un dato: le valli alpine come le stiamo conoscendo brulicano di intelligenze e di prospettive e le realtà che stiamo visitando sono dei laboratori in cui si sperimenta un modello di domani che potrà sopravvivere alla catastrofe.

La catastrofe, che segnerà la fine di buona parte del mondo così come lo conosciamo – e che fermerà anche la nostra vespa, mandandola definitivamente in pensione – si chiama “picco petrolifero”, e forse troppo negativa non è, se ci si arriva con le idee chiare e con le giuste cartucce da sparare.

Il picco petrolifero è la fine del petrolio a buon mercato, determinato dall’esaurimento di buona parte dei giacimenti così come li conosciamo. Finite queste riserve estrarre petrolio diventerà troppo costoso e buona parte de beni che si basano sul greggio usciranno dal mercato, con tutto quello che ne consegue. Se ne parla da decenni ma, evidentemente, è più conveniente per il mercato sfracellarsi contro un muro che non prendere la rincorsa per tentare il salto. Il capitalismo è un meccanismo tanto forte quanto stupido, come una bestia impazzita e un po’ cogliona.

E’ d’uopo organizzarsi.

Uno di questi crogioli in cui ribolle l’umanità del domani è la Valle del Cervo, che prende il nome dal torrente che nasce sui monti e bagna Biella, adagiata su una terrazza che dà sulla pianura. Qui ci accoglie Enrico, personaggio poliedrico e multifunzionale che, tra le sue imperdonabili colpe, annovera quella di aver sostenuto e progettato il perimetro sin dalla prima ora, agganciandolo alla Onlus Viaggi e Miraggi, che si occupa di turismo responsabile. Ne riparleremo. Non pago di accompagnare per il mondo quei turisti che vogliono conoscere e rispettare al tempo stesso la terra e i popoli, Enrico sta portando avanti da diverso tempo il progetto del “biellese in transizione”.

La transizione, ci spiega, nasce dal movimento inglese delle “transition towns” che si fonda sul concetto di permacultura, ossia un utilizzo ottimale della terra per recuperare la sovranità alimentare. Grossi cambiamenti, quindi, che hanno come precondizione il recupero del concetto di comunità e la ri-tessitura di una nuova rete di relazioni sociali, decisamente più interconnesse tra loro e in grado di generare una nuova economia. Senza più risorse in grado di garantire lo stile di vita consumistico e individualista a cui siamo abituati (forse “drogati” è più corretto), la nascita di strumenti e prassi collettive e condivise diventa una necessità, ancor prima di una scelta. Meglio farlo da subito, dicono loro.

Incontriamo poi una caratteristica che sembra strutturarsi come una costante: la dimensione della comunità. La transizione funziona in maniera ottimale in realtà medio piccole, ci dice Enrico, dove le connessioni tra le persone si fondano su dati reali, legati alla vita quotidiana, all’incontrarsi per strada, a condividere spunti e questioni inscrivibili nello stesso orizzonte ottico. Si abbatte così un grande nemico del nostro tempo, quello che genera frustrazione e impotenza: la solitudine. Una solitudine che, prima di essere esistenziale, è economica e sociale: tutti uguali e disaggregati, soli di fronte allo scaffale del supermercato. In un’ottica neocomunitaria accade invece che persone che prima si incontravano senza salutarsi, da “estranei”, iniziano un nuovo percorso che li porta a ricostruire relazioni fondate su bisogni primari di cui prima non si sentiva l’esigenza. Sopravvivere al crollo dello stile di vita opulento, appunto. Una nuova alchimia in cui convergono istanze e progettualità che lavorano sottobosco da decenni, come l’ecologismo, la riduzione dei consumi, l’inversione del ciclo di rifiuti, la sovranità energetica autogestita, il consumo di cibo prodotto localmente.

Il Biellese è una realtà in fortissima deindustrializzazione. Una sorta di “decrescita forzata” – concordiamo – che pone le condizioni per ripensare gli standard di vita e, con essi, la scala di valori a cui tendere. Piano piano torna l’uomo, nell’accezione umanista del termine, mentre il consumatore inizia una tortuosa ritirata che in molti luoghi avverrà in maniera non del tutto serena, mentre qui c’è la possibilità di accompagnarlo nei libri di storia senza isterie collettive, usando la testa e la terra, il vero petrolio del futuro.

Non è un caso che torna in scena il protagonista indiscusso del nostro vagare per l’altra Italia: l’orto! Enrico ci mostra il suo, nel campo in cui De Amicis giocava a bocce un po’ di lustri fa, ospite della nobiltà locale che qui ha costruito sontuose ville alpine ora in via di abbandono. Assieme a Elisa e a Niccolò, il loro meraviglioso bambino, lo hanno giustamente chiamato “orto cuore” e lo crescono con passione e consapevolezza, pensando al futuro di una valle dove le industrie sono già diventate da diversi anni centri culturali.

 

  • tracciato prealpino
  • Piemonte
  • 8° giorno di viaggio

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